Tutte le canzoni del mondo. Un software compone ogni melodia pensabile.

I buoni artisti copiano, i grandi artisti rubano. Pare che Picasso, con una filosofia già orientata alla appropriation art, avesse già superato qualsiasi dibattito sul plagio, un argomento che ciclicamente torna a far discutere.

Damien Rihel e Noah Rubin, programmatori informatici e musicisti, sono gli autori di un esperimento che esplora le dinamiche delle avanguardie musicali e scuote gli apparati normativi del diritto d’autore.

I due, tramite un software MIDI, hanno generato tutte le combinazioni di note musicali possibili sotto una licenza Creative Commons di tipo Zero, cioè la situazione giuridicamente più simile al pubblico dominio. Lo scopo sarebbe quello di evitare casi di plagio inconsapevole e dimostrare come l’assenza di vincoli sui diritti favorirebbe una musica più libera, forse priva di speculazioni. La discussione corre il rischio di essere infinita.

In prima analisi, occorre dire che il plagio musicale non può essere ricondotto solamente all’aspetto della melodia, per quanto questa sia un elemento portante, almeno nella popular music. I criteri identificativi sono anche altri: la struttura armonica, il ritmo, il testo della canzone, il timbro dei suoni. Tutti elementi distintivi di un brano.

La nostra Legge sul Diritto d’Autore, all’art. 171, non disciplina il plagio come figura autonoma di illecito ma lo assimila al reato di contraffazione prevedendo le medesime sanzioni per chiunque riproduca, trascriva, diffonda opere altrui senza averne titolo.

Dal momento che il diritto sembra muoversi all’interno di uno spazio, la norma giuridica finisce sempre per divenire punto di fuga di quello che potrebbe definirsi il contesto in cui essa agisce. Nel caso del plagio, la dottrina ha da tempo definito il cd. cultural gaze, nel senso di prospettiva culturale da cui inquadrare gli intenti degli autori, il territorio comune da cui spesso sorgono le loro creazioni. Copiare quindi, o meglio prendere spunto, sarebbe così un passaggio imprescindibile del lavoro di un autore, che non deve essere considerato solo alla stregua di una pratica scorretta ma anche come tecnica maieutica, necessaria al processo creativo. Si arriva così a tutelare la freedom to copy.

Le stesse corti di giustizia talvolta hanno mancato di considerare l’elemento del cultural gaze, applicando rigidamente i principi della normativa copyright, come nel caso della controversia in cui George Harrison fu accusato dalla band degli Chiffons di aver plagiato con il suo brano My Sweet Lord la loro canzone He’s So Fine. In quella occasione il Tribunale giudicante parlò di subconscious infringement, sostenendo che Harrison avesse ascoltato il brano degli Chiffons in precedenza (dal momento che è stato presente in tutte le classifiche britanniche per un lungo periodo) per poi, involontariamente, riprenderne delle parti nella sua My Sweet Lord.

George Harrison

Se per un verso, allora, il plagio può apparire come una tutela del lavoro dell’autore, dall’altro, stando all’opinione della dottrina, a livello processuale esso verrebbe riscontrato in modo eccessivamente univoco, applicando criteri che non terrebbero conto di aspetti cardine dell’attività autoriale.

In ultimo, c’è da riflettere sul fatto che Rihel e Rubin abbiano associato una licenza a melodie generate in automatico da un software. La nostra Legge sul Diritto d’Autore agli artt. 6 e seguenti dà per inteso che l’opera creativa è espressione del lavoro dell’intelletto umano e che il soggetto titolare dei diritti d’autore coincide con chi è in grado organizzare e dirigere l’opera stessa.

È da escludere, per il momento in Italia, che una macchina possa venir riconosciuta come autore di un’opera dell’ingegno, a fronte anche di recenti Raccomandazioni della Commissione Europea. Anche perché un software non potrebbe gestire in maniera autonoma i corrispettivi derivati dallo sfruttamento del suo lavoro creativo. Per ora.

 

 

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